Incipit
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IL TRENO VA
Settembre. Stazione di Venezia S. Lucia. Acqua alta. Le gondole sul canale vanno su e giù seguendo l’onda. Barconi da trasporto, bianchi e blu, pieni di scatoloni, e i due che fumano guardando avanti. I colombi, quelli ci sono sempre. Il bagnato dell’ultima pioggia. Gente di fretta, ancora turisti in pantaloni corti e sandali, come fossero a Miami. Il Ponte degli Scalzi, con ancora lo stendardo della Biennale. Click. Foto.
Enrico non ha visto nulla di tutto questo, lo vede da sempre, quindi non lo vede, e poi ha altro per la testa. È in ritardo, perderà il Freccia Rossa per Roma. Era meglio prendere l’aereo, accidenti! Se lo dice sempre, ma sa che non conviene: un’ora per arrivare al Marco Polo, tra aspettare il vaporetto e arrivarci. Minimo un’ora prima dell’imbarco bisogna essere là. E fanno due. Un’ora di volo. Esci dall’aeroporto, trova un taxi, se lo trovi, o il trenino. E fanno altre due ore, solo per arrivare in centro. E sempre di corsa. In treno quattro ore, da stazione al centro di Roma. Ha già fatto più volte i conti. L’aereo non conviene.
A questo sta pensando, e a non mettere le scarpe nuove nelle pozzanghere. E al non aver fatto colazione, e ora se la sogna una brioche e relativo cappuccino. E voglia di fumarsi una sigaretta, che poi non si può più.
Carrozza 8, posto 35, singolo, lato finestrino. Sono i posti migliori, da soli. Al massimo un’altra persona davanti, singola anche lei, ma si evitano famiglie, bambini, dove mettere i piedi, eccetera. È il suo posto preferito quando viaggia con il Freccia Rossa. Così ha tempo di leggere i giornali, magari di fare anche un pisolino, se capita. A volte con la fortuna che il posto davanti non sia occupato, e allora si possono stendere le gambe. Cose così, pensieri così, di un giovane politico veneziano appena promosso parlamentare, cioè uno dei famosi “peones” della tastiera. Un tastierista. Sempre meglio che lavorare, non ci piove. Enrico sorride fra sé a quest’ultimo pensiero. Si siede, il treno va.
Il Ponte della Libertà è un susseguirsi di scambi e binari, con altri treni che arrivano o vanno, sfiorando la bassa laguna che oggi pare un mare in tempesta. Sullo sfondo, a destra, un aereo sta atterrando al Marco Polo, si vede la serie di lucine della pista, e l’aereo, che pare fermo, ma sta correndo a quasi 300 all’ora. Il cellulare segnala un messaggio: Linda “ricordati di me”. Enrico sorride, e chi ti potrebbe scordare? Va tutto bene, benissimo. Un anno da ricordare, con tutti gli incastri di contatti e situazioni che ordinatamente s’infilano gli uni negli altri, ognuno promettendo ulteriori fortune. Ah! Bella la vita…
E siamo a Mestre. Altra gente che sale. Speriamo nessuno si fermi qui, pensa Enrico, o almeno che sia una bella squinzia, se proprio dev’essere.
Una signora, invece, di una certa età, nasona, capelli scarmigliati grigio-nero, fianchi importanti, muso da topo. Ecco cosa il Destino regala oggi a Enrico. Pazienza! Detta signora trascina un trolley, ma tiene anche una borsa capace ben stretta al petto, che quasi le impedisce di muoversi nello spazio angusto del corridoio. Sì, proprio una culona, con gli occhiali a goccia genere America anni ’50. Pazienza.
«Libero?» chiede.
«Non so, dovrebbe vedere il numero, sul biglietto» risponde Enrico, cercando di essere gentile.
Quella traffica con il suo trolley di plastica rossa, e riesce ad infilarlo tra i due sedili, dietro. Poi sprofonda nel sedile, si toglie gli occhiali, li pulisce con un angolo del foulard che ha al collo, li rimette sul proprio naso, e ora guarda bene Enrico.
«Buongiorno»
….
INCIPIT
L’alba schiariva il cielo sulla darsena di S. Elena, la punta estrema ad est di Venezia. E schiariva i mattoni rossi di quel che era stato il Collegio Navale Militare Francesco Morosini, dove centinaia di cadetti, negli anni, avevano preso le mostrine per iniziare la carriera in mare. Quel che un tempo era zona di disciplina e onore, di sport e studio, di belle divise blu e sorrisi di ragazzi, ora era un carcere; un lugubre grande carcere per chi non sapeva stare al suo posto, per chi infrangeva le regole per disperazione, per fame, quasi più per delinquenza. Per la delinquenza comune era ancora in funzione, e pieno, il carcere di Santa Maria Maggiore, a Santa Croce.
I bei giardini, i lunghi viali alberati, le darsene con le barche d’esercitazione, tutto era uguale a prima, ma ora imperava il silenzio, e anche un certo fetore, in parte dovuto a quel falò che da mesi, in continuazione, bruciava al centro del cortile principale. Ma sì, era per bruciare i rifiuti che nessuno più raccoglieva, per bruciare gli abiti smessi dei detenuti, però, però quella puzza indefinita penetrava ovunque, anche nei lunghi corridoi vuoti, nelle aule chiuse, nella chiesa, nell’aula magna, e nell’anima. Le camere dei ragazzi erano ora camerate di poveri uomini, tutti maschi, e a questa somma d’uomini la campana della sveglia apriva gli occhi al nuovo giorno, e quelli abbandonavano la consolazione dei sogni, contavano la solita sfilza di mattonelle, e cercavano la forza di prepararsi, in piedi, per l’appello del mattino.
Nel cortile sud invece, quello che confinava con il mare, tre uomini camminavano uno dietro l’altro nella semioscurità, illuminati a tratti dai lampioni posti lungo il perimetro. Quello in mezzo aveva le braccia legate dietro la schiena, con una catenella che chi lo seguiva teneva in pugno. Poteva avere una quarantina d’anni, la barba lunga, i capelli rasati a zero. Quello in mezzo si lamentava, incespicava, gli altri due si fermavano e lo aspettavano, più volte, poi proseguirono, così in fila, fino alla fine del cortile, in fronte al mare, dove c’era uno spiazzo di pietra d’Istria sotto una grande croce di ferro. Quello dietro, che teneva la catenella, era alto, secco, i denti di fuori. Si fermarono, si dissero qualcosa che da lontano non si sentiva o capiva, poi i due ai lati spinsero e strattonarono quello legato fino a che questo s’inginocchiò. Ora urlava qualcosa:
«Era solo fame… Era solo fame… Abbiate pietà… Era fame… Pietà pietà pietà…»
Singhiozzava, e continuava a ripetere, ora a mezza voce, non credendoci più, pietà pietà pietà, ma gli misero un cappuccio di stoffa nera sul capo, e quello s’agitò ancor di più, fece per alzarsi, ma quello dietro lo teneva, non sarebbe scappato. Quello davanti prese un foglio piegato in quattro dalla tasca, fece un cenno a quello dietro poi lesse qualcosa. Se ci si avvicinava si sentiva meglio.
«…E pertanto, per la legge marziale in vigore nella città chiusa di Venezia, Marin Gino sei stato condannato a morte oggi 16 settembre 2035. La sentenza è immediatamente eseguibile. Dio abbia pietà dell’anima tua.»
Così ora si sapeva che quello in mezzo si chiamava Gino Marin, e c’era una certa confusione in quel pezzo di cortile, perché Marin si agitava molto, si buttava a terra, batteva la testa sulle pietre bianche, tanto che quello che aveva letto la sentenza ora lo teneva per la catenella con le braccia sollevate dietro la schiena, e doveva far male, e quello urlava ancor di più, Cristo! Sarebbe stato meglio imbavagliarlo, e continuò così, fino a che l’altro, quello alto e secco, estrasse una pistola, la puntò alla testa del condannato, e PUM! era tutto finito.
Sotto al cappuccio nero un tragico fiore rosso e nero era sbocciato tra i capelli rasati della nuca, e il suo gambo aveva distrutto, al lato opposto, quel che era stato un viso.
….
INCIPIT
La prima volta che mi sono ucciso era il sette di luglio. Avevo deciso (sentito) di non poterne più da qualche mese: giorni che piangevo di niente, soprattutto di me, di quel bambino che m’immaginavo sperduto in una piazza, che disperato cercava attorno qualcuno che lo prendesse per mano. E giorni nei quali non vedevo nulla che mi desse la forza, l’interesse, di alzarmi al mattino.
Ero infelice, non tremendamente, ma quietamente, silenziosamente.
Ho un termine di paragone, un riferimento, di che sia la felicità, ed è la prima notte nella mia casa mia, finalmente fuori dalla famiglia, la mia prima notte “da solo”, la prima notte nella quale affrontavo la mia vita da adulto. Ero a letto nel buio della camera, sorridevo appoggiato al cuscino con le braccia sotto il capo, e la sveglia con i numeri luminosi diceva “007”, lo ricordo ancora, mezzanotte e sette minuti della mia nuova vita. Era come fossi al gate trepidante per la partenza e l’aereo mi aspettasse, l’aereo che mi avrebbe portato chissà, non importava dove, ma sarebbero stati luoghi entusiasmanti, tutti quelli che riuscivo a immaginare. I prossimi giorni della mia vita. Con ancora un debole cordone ombelicale che mi legava alla famiglia, sì, ma era dietro le spalle, e facilmente dimenticabile. Quello, quello “007”, è il termine di paragone che riesco lontanamente a ricordare come momento di felicità. Oh, sì, ne ho avuto altri di momenti così, e li ricordo più o meno tutti, ma quello è il primo così chiaro e lucente, con l’etichetta FELICITÀ scritta sopra.
Come tutti, ho avuto anche momenti di infelicità, di tristezza, di disperazione persino, ma quelli sono momenti che si dimenticano, come le donne dimenticano il dolore del parto per poter avere altri figli; l’infelicità si dimentica, annegata in un sospiro, per andare al giorno dopo, e quello dopo ancora, nella speranza d’averne altri di quei momenti di felicità, alla faccia di Schopenhauer, il pessimista.
La vita scorre nel quotidiano, perlopiù piatta, uguale a sé stessa giorno dopo giorno, con piccole onde di piacere fatte di una buona colazione, o un bel libro, o film, o un bacio, o insomma una qualsiasi di quelle cose, quei momenti piacevoli, che ognuno riceve o inventa come sa e può. Poi ci sono dei picchi in alto nella sinusoide: di bellissima follia amorosa, di raggiungimento di quella tale meta, di fortuna inaspettata… Oppure, picchi in basso, più frequenti, di giornate storte, litigi e incomprensioni, abbandoni, e tutto il rosario delle cose che non funzionano, e sono tante.
L’infelicità si dimentica, ma lascia comunque dei segni, delle cicatrici rosa, alcune ben spesse, e, tutte assieme, tendono a piegare la schiena dritta dell’innocenza bambina. L’infelicità t’insegna il dubbio, la diffidenza, anche il timore che chi incontri possa darti altra infelicità. Ma, si può fare diversamente? Ci si può chiudere in una torre, in una grotta, per non farsi del male? C’è chi lo fa, e lo si vede andare comunque in giro, con la sua corazza di bugie o con la scorza del cinismo, e sì, si farà meno male nel rapporto con l’altro, ma quella corazza attenua o frena anche ogni sentimento, vi fosse, e preclude ogni amore, sia darne che riceverne.
Si vive mummificati anzi tempo nel proprio sarcofago, nel silenzio.
In quei mesi prima di uccidermi, semplicemente la sinusoide della mia vita era diventata una linea piatta, senza picchi in alto, nemmeno quelli minimi garantiti, e anzi si era tutta diretta verso il basso, verso la linea di terra sotto la quale dicono ci sia l’encefalogramma piatto.
Ma certo, reagivo, credevo di reagire. Ma ogni momento era così difficile, così infruttuoso, e non vi era speranza, idea di speranza, un’immagine, che domani sarebbe migliorata la situazione. Depressione? Probabilmente sì, una faccenda di chimica, ma non solo. Avrei solo voluto addormentarmi, e non sognare.
….
INCIPIT
Il dolore è insopportabile, mi toglie il respiro, neanche urlare serve, non più.
Inizia dalla schiena, come un’onda, sale al diaframma, scende tra le gambe, ogni volta un’onda più alta, più vicina, che mi dilania, mi rompe, e non si può fermare, e tra un’onda e l’altra nulla. Il viso della suora sopra di me sorride, mi asciuga il viso sudato, «brava» mi dice, scompare. Provo a respirare ma ecco, un’altra onda, più alta, più immensa, che sento un crack là sotto, morirò, lo so, morirò per i miei peccati non commessi non voluti. Mia madre non c’è. La suora riappare, spinge sulla mia pancia, come non bastasse l’altro dolore, «su da brava» dice. Qualcosa più forte di me più grande di me mi ha presa, mi strizza, mi stende, mi riempie di dolore, non mi dà tregua, ancora una ancora una ancora una. Un’onda che sale da dentro di me e, finalmente, lo sento scorrere, saltare, come un pesce… Mi svuoto, di colpo, tremendamente vuota, come non avessi più corpo, e il dolore cessa improvviso, per tornare ridotto come un’eco, dolente, potente. Basta, vi prego basta… Ora riesco a respirare. La suora torna, sorride, con un fagotto in mano che urla, «è un maschio», ma ho solo sete, una sete tremenda, e non voglio nulla, solo che passi tutto, che passi presto. E mi sveglio.
Il dolore è rimasto, basso, pulsante, di schiena, di pancia, dove qualcuno ha infilato una mano dentro di me e mi spreme, mi strappa la vita. Ogni volta è così. Sento che scende. Mi butto giù dal letto, sul pavimento freddo, mi stringo le gambe e cerco di non pensare al dolore. Poi cessa. Tra le gambe ancora una volta quel sangue, che mi dice fertile, io che non voglio essere fertile, io che non voglio non conosco rifiuto questa parte del mio corpo, che nemmeno mi tocco, mi lavo veloce, che… Mio Dio non indurmi in tentazione.
Miodio fammi passare presto questo male. Amen.
Lucia riesce ad alzarsi, piano, va ad un cassetto dell’armadio, cerca ma non trova.
Lucia ha quarant’anni, è una bella donna, piena, alta, con un viso luminoso incorniciato da capelli neri e lucidi, salvo un piccolo ciuffo, bianco, curioso, sulla tempia. Ora veste un camicione bianco, e si tiene una pezza tra le gambe, mentre esce a piedi nudi nel chiostro che è ancora buio, e va ai bagni.
POSTA
Una bella giornata di sole. Il gattone nero sta nel suo angolo preferito del chiostro, all’ombra, da dove può controllare tutta l’area, e finge di dormire, con gli occhi a fessura. Tiene d’occhio possibili lucertole in fuga dal lavoro che la vecchia monaca sta facendo sul roseto. Sulla tonaca ha il grembiule a strisce bianche e azzurre da lavoro, e sul velo porta un cappellaccio di paglia. Taglia cura pota il lungo roseto che fa tutto il perimetro, di belle macchie rosse gialle e bianche posate sul verde scuro delle foglie. È un bel chiostro, del ‘500, con le colonnine e il tetto spiovente, il pozzo al centro, ma soprattutto quel roseto, e lei, la monaca, ne è orgogliosa.
La pace claustrale del luogo cessa improvvisa per le grida che vengono dal corridoio che porta al convitto: appare un diavoletto nero con le treccine raccolte sul capo e un vestitino rosso, è una bambina magrolina ma piena d’energia, e infatti urla, ride, urla «postaaa postaaa postaaa», e corre, inseguita da una suor Maria settantenne, bassa e cicciottella, poverella, che non ce la fa a starle dietro.
«Damme quella busta, mannaggia a te, quando te prendo… Dammelaa! Denise fermati che me fai morì anticipata…»
Ma anche lei ride e urla nella sua parlata veneto/pugliese. Non ce la fa più, si ferma appoggiata al muro, respira con fatica. Denise svolta l’angolo, ma poi torna indietro, fa capolino, spia suor Maria, le si avvicina.
«Suor Maria… Ehi… Ce la fai?»
….
CHE MACELLO
«Che maciello!» Sbotta il maresciallo, proprio con la “i” alla napoletana.
Con questo caldo l’odore del sangue prende allo stomaco. Allora lui esce. Gli altri si muovono sicuri prendendo impronte, scattando foto ai vari segnaposto gialli, alla scena del delitto. Delitto? Ancora non si può dire, aspettiamo il giudice.
Sei gatti stanno ai bordi della siepe, curiosi, più le onnipresenti cicale, sfiancante frenfren.
C’è da impazzire.
Gli operai sono lì anche loro, ma non c’è niente da fare se non aspettare il loro turno, guardano e basta, forse pensano. Alla fine tutto torna qui, lo sanno bene. Però non ci voleva, non ci voleva proprio.
Anche la Marta, dall’altro lato del parcheggio, guarda curiosa tutto quel movimento di uomini e macchine, ma non osa chiedere. Se ne sta seduta sotto l’ombrellone facendosi aria con un ventaglio di carta. Doveva succedere, pensa. Ma non sa cosa dovesse succedere, né perché, il suo pensiero fa solo parte del suo fatalismo, altrimenti non farebbe il mestiere che fa, e da tutti questi anni. Le hanno anche fatto delle domande, ovvio, ma lei ha risposto a monosillabi, come sempre. Non ha visto niente non sa niente, neanche lo conoscevo.
È la fine di luglio, un luglio brutale anche lui immigrato dall’Africa. S’è fatto migliaia di chilometri per arrivare fin quassù, nel Nordest, e non se ne andrà presto.
«Marescia’» arriva un carabiniere «venite a vede’…»
Il maresciallo non ha voglia di tornare là dentro, ma proprio nessuna.
«Che ce sta ancora? Maronna du Carmene che jurnata ‘e mmerda» e segue il carabiniere, attraversa la casa, esce dall’altro lato, sul cimitero.
E nel bel mezzo del cimitero sta un cervo, un maschio bello e possente nei suoi palchi che porta orgoglioso.
«Do’ è escito chiste?»
«Stava là, marescia’»
Il cervo li guarda senza interesse, masticando e rimasticando l’erba fresca, si gira, e lento si avvia sdegnoso verso l’uscita sud.
«Che jurnata!..» Insiste il maresciallo asciugandosi il sudore.
I morti?
Come al solito, stanno là, nulla che li riguardi di questo mondo.
Nulla di nulla.
UN ARZILLO VECCHIETTO
“Sei un arzillo vecchietto”, mi ha detto la scema. L’ho guardata senza parole da dire, ognuna sarebbe stata una sofferenza per me. Per me. Poi rideva. Poi rideva meno. Poi non ha riso per niente. Poi non rideva più, e non avrebbe più riso. Fanculo.
Che sono vecchietto, anagraficamente, magari forse. Arzillo sicuramente, proprio in gamba direi. Se non fossi pelato e con qualche ruga nessuno direbbe che faccio settanta quest’anno.
L’unico problema che ho è ‘sta cazz di prostata, come tutti gli quelli che arrivano a questa età. Piscio a filo, non quelle belle pisciate di una volta, ma tutto qua. Forse bevo poco. E forse a camminare alzo poco i piedi, è per questo che i vecchi inciampano e cadono. Ma non sono mai inciampato o caduto, per fortuna. Insomma, non mi lamento.
Il difficile non è uccidere, anzi, uccidere è sorprendentemente facile, anche se a chi tocca non collabora. Il difficile, come hanno imparato i crucchi nei campi di sterminio, è sbarazzarsi del corpo.
Dai, un pensiero che mi è venuto così. E io di corpi morti me ne intendo.
Non sono matto, il dottore lo ha certificato. Ho qualche mania, ma chi non ne ha? Mi ha detto di tenere un diario, e di portarlo alle sedute una volta al mese. Che ci scrivo? Gli ho chiesto. Quello che vuole. Allora che diario è? Un diario si chiama diario perché ci scrivi quel che capita ogni giorno, no? Se no è una raccolta di pensieri e cazzaggine parolaia, o no? Ma ok, che non dica che non collaboro. Poi io sono più furbo di lui, scrivo quel che mi va di scrivere, e mai la verità. Come quando mi ha fatto il test con le macchie, che, mica gli dicevo quel che vedevo veramente. Gli dicevo la terza cosa che mi passava per la mente, a volte la quarta, o la quinta. Mai la prima. Sono mica scemo!
….
IL SOSTITUTO PROCURATORE
Il Sostituto Procuratore è una donna.
Ha i capelli ricci biondo cenere, su un viso denso di rughe, ossuta, bassa, sarà un metro e sessanta. Ha i capelli di una ventenne sulla testa di una vecchia, e questo è disarmonico, brutto. Ributtante. Dalle dita giallastre della mano destra, so che è o è stata un’accanita fumatrice, senza filtro. Sta acquattata alla sua scrivania, e non mi guarda entrare. Il carabiniere mi fa sedere su una sedia di legno, di fronte alla scrivania, e resta dietro di me.
La stanza è piccola, polverosa, con il pavimento di legno usato, e si sente quell’odore tipico degli uffici pubblici, uguale a quello del carcere. Vorrei andare a pisciare, ma taccio, mi tengo finché posso. Sono stanco, indifferente, non m’importa nulla, di nulla, al di qua del ponte. Superato il ponte cambia la prospettiva, ogni cosa è uguale a prima, ma diversa, come m’avesse risucchiato una tromba d’aria e portato di là del mare, in una terra sconosciuta.
Alle mie spalle sta un altro carabiniere, più giovane, di fronte a un computer. Il Presidente della Repubblica mi guarda serio dal ritratto appeso al muro, assieme al crocefisso.
Dietro al magistrato c’è una fila di calendari della Benemerita, appesi a una cordicella, e mi perdo a guardarne le copertine, con impressi gli anni di edizione. 2016, 2017, 2018, 2019… che facevo nel 2019, di là del ponte? È stato l’anno che abbiamo rifatto il bagno?
Irma! Che ne sarà di mia sorella? Niente, se la caverà benissimo, anche nella vergogna. Si è sempre un po’ vergognata di me, ora di più, ne ha tutte le ragioni, come darle torto? Avrà problemi al lavoro?
La donna magistrato alza gli occhi, sono chiari, mi guarda. Me la immagino sotto, che miagola come fanno le donne Certo coprendole quel viso da vecchia, e anche lei…
«Toglietegli la manette», esordisce la donna, e il carabiniere traffica con i ferri, mi libera le mani.
«Vedo che non ha un avvocato, vuole nominarne uno?»
Non rispondo. Lo ha detto gentilmente, ma precisa. È una abituata a ricevere risposte, lo sento, anche se è bassa ed è una donna. Che vuoi che le dica? Non ho soldi per un avvocato, questo direi, e a che servirebbe un avvocato?
Le nuvole oggi corrono scure, fuori dalla finestra.
«Marin, vedi chi c’è d’ufficio oggi», continua la donna, e sento il carabiniere alle mie spalle che si alza ed esce. Non succede nulla per un po’, solo silenzio, quella continua a leggere le sue carte, dove immagino ci sarà scritto dei miei delitti e delle mie pene.
Che le importa? Poi va a pranzo a casa sua, si lava le mani, e la coscienza. Magari ha un marito, di sicuro queste hanno un marito, e dei figli per bene, in una casa per bene, una vita per bene. E la bilancia per pesare il bene e il male. Che cazzo di mestiere!
Ho spento le luci dell’albero? Alla Irma sarà piaciuto il regalo? Che regalo che le ho fatto povera sorella mia! Mi hanno tolto le stringhe delle scarpe, e la cintura, per paura che mi suicidi. I pantaloni non mi cadono, però, per fortuna. Mi immagino di restare in mutande, davanti alla legge, con le mie gambe glabre e secche, ma non riesco a ridere, solo pena, pena di me.
Che mi ha preso?
Ora non ha senso, ora che è tutto spento, ma è stato esaltante finché è durato. Così deve essere drogarsi, immagino. Sono un uomo insignificante, anche mediocre, lo ammetto, ora mi vedo, ora mi misuro, che non val nemmeno la pena, signora magistrata, di perdere tempo con me. Ma lo so che la meccanica della giustizia una volta innescata va per conto suo, sopra a tutto e tutti: avanza, ruota, stritola vite sogni e tempo, accomunando vittime e delinquenti.
Dicono che l’uomo abbia un innato desiderio a confessare, a narrare la propria storia. Io non ho questo desiderio, io non sento nulla, solo stanchezza, mentre il passato mastica il presente.
Non ho più nulla da perdere, poiché ho perso tutto. Non è questo il potere?
….
ATTO PRIMO
SIPARIO
SCENA 1
Musica. La scena è al buio. Si intravedono, a destra e sinistra, due tavolini quadrati, 90×90, non troppo alti, poi alcune seggiole da esterno. Il fondale e le quinti sono nere. Pannelli simulano un muro con dei graffiti, altrove manifesti pubblicitari strappati. Una scritta, spenta, BAR. Elementi in tubo di lastica bianchi simulano uno spazio.
Al proscenio è illuminato solo il centro con singolo faro. Entra IL TEMPO, un tizio bardato come un vecchio hippie, e si ferma nel cono di
luce.
TEMPO
Voi che amate, o avete amato. Che avete provato gioia, e pianto. Voi che non conoscete l’amore, o
avete creduto d’incontrarlo.
Voi che sperate d’amare o disperate di più non amare.
Voi che avete intelletto d’amore.
A voi tutti dico: attenti, che l’amore è una belva dai denti sempre nuovi, v’incanta con occhi di miele,
ma non avrà pietà, fino all’ultimo brandello dell’anima vostra.
Per gli altri, i bastardi, le bastarde, che sfuggono alla lusinga, che non sanno né mai conosceranno
amore, a voi riconosco il sorriso della sufficienza, a voi l’incredulità e il riso per le pene altrui.
Siete forse i fortunati, o i sommamente sfortunati.
Lo saprete solo l’ultimo giorno, o nella vecchiaia che toglie il corpo ma non il desiderio.
Io sono il Tempo, a cui nulla sfugge, che appassisce i fiori e rende polvere le vostre ossa, e con esse
ogni carezza e sospiro, e amore. Ogni odio, ogni differenza. Rimarranno solo le Parole, con le quali
narrare chi foste, e le vostre storie.
Il faro si spegne, il Tempo esce di scena verso il fondo. Si sentono rumori di moto, vociare di giovani. Si accende la scritta BAR. Musica
techno. Entrano i ragazzi MILO con un diffusore dal qual esce la musica, KHALED, DARIAN, che si siedono a sinistra, a destra sono già sedute le ragazze VIOLA, MELISSA, ANDREA. Tutti sui vent’anni o meno. Andrea ha abiti e taglio capelli maschili. Sono vestiti al tempo d’oggi.
MILO
Oh oh, quanto ben di Dio c’è qui in terra.
KHALED
Ehi del bar! Birra per tutti. Signorine, gradite? Khaled lo dice con un inchino sfottente. Le ragazze li ignorano.
KHALED (segue)
Oh le schizzinose. Le signorine puzza al naso dei quartieri alti.
MILO
So io che ci vorrebbe ai quartieri alti. (fa un gesto volgare)
DARIAN
Sì sì, quel che manca, anch’io ne ho per tutte. E me ne avanza. (ridono)
KHALED
Ehi del bar! Allora! Birra per tutti.
Esce il BARISTA.
BARISTA
Qui non si strepita, e ci si comporta civilmente.
….
Ho ucciso una bambina. Non ricordo che le avessi fatto, e se fatto, ma ad un certo punto seppi che dovevo ucciderla, perché troppo sarebbe stato il clamore, terribile la vergogna. Dovevo ucciderla e far scomparire con lei ogni mia colpa. Era una bambina piccola, mingherlina, con un vestitino a fiori e le mollettine rosa tra i capelli biondi. Forse l’ho strangolata, ma anche questo non lo ricordo bene, certo non ricordo ci fosse del sangue, o soffocata. Quanto iniziai ad ucciderla era terribile, perché quella scalciava, mugolava, ma non potevo fermarmi, poi subentrò la pena, che era già mezza morta, lo sentivo, e dovevo finirla, per pena, per commozione. L’amavo, ma eravamo così, senza soluzione.
Poi, il corpicino morto lo misi in un sacco di iuta, e quel sacco lo nascosi in cantina, sopra un armadio. Nei giorni seguenti fortissimo era il senso di colpa, ma soprattutto il terrore che mi scoprissero, che sapessero di me, che avevo fatto.
Mio padre scendeva in cantina a prendere le bottiglie di vino, ed io lo seguivo, e mi chiedevo allarmato: non lo sente questo odore di morte? Di putredine? Perché non se ne accorge? Addirittura dal sacco sopra l’armadio colava giù del liquame, ed io avevo la colpa e la paura. Mi scopriranno, ogni giorno lo pensavo. Poi mi svegliavo.
Avrò avuto vent’anni, anche meno, e questo sogno terribile e chiarissimo mi angustiò per molto tempo, forse anche un anno, non tutte le notti, ma spesso, ed anche di giorno, non capivo bene se era sogno o che. È un sogno, mi ripetevo sollevato al mattino, solo un sogno. In una variante, il sacco lo seppellivo in una buca in cantina, e ci colavo sopra un tappo di cemento. Non si sentiva più l’odore di morte, ma la colpa, ed il terrore di essere scoperto, quelli mi perseguitarono per molti sogni ancora, ed una scia permaneva anche nel giorno. Poi, nel tempo, me ne dimenticai.
Molti anni dopo, ad una cena, per caso ebbi a fianco al tavolo una signora che era una psicologa, una donna sorridente, materna, tranquilla. Si parlava delle solite cose, poi si parlò di sogni, e mi tornò alla mente quell’incubo di anni prima e lo raccontai. È semplice, mi disse la psicologa, stava decidendo se essere uomo o donna, ed ha scelto uomo. La donna, la bambina che era in lei, l’ha sotterrata, per sempre. Ed appena lo disse ebbi un’illuminazione: era così, senz’altro così.
Non avessi “ucciso la bambina”, chissà, oggi non saprei chi sono, se davvero lo so, o se mai si può saperlo…
INCIPIT
Marco è da sempre contrario al digitale, alla fotografia digitale. Comoda, per carità, facile, poco costosa, pop. Tutte doti che per lui non sono doti: a Marco piace mettere le mani nel bagno di sviluppo, sentire quell’odore acido, piace esporre la carta sotto l’ingranditore, come si è fatto per decine di anni, e là far vedere la maestria del mascherare con le mani le varie zone, decidere la preminenza di luci od ombre, esattamente come si fa, in altri modi, con le incisioni, da Dürer a Dorè ad oggi. La stampa fotografica in bianco e nero è un’arte, ripete spesso, come l’incisione. C’è lo scatto, ed il negativo, ma poi c’è l’interpretazione ed il passaggio del negativo a positivo, in camera oscura, e lì molte variabili da controllare, come temperatura, agitazione della bacinella, contrasto della carta, tipo di carta, e molto altro.
Questo pensa, Marco, alla luce rossa della camera oscura, mentre stampa grandi fotografie che lui stesso ha fatto, dei 50×60, quasi non vedendo, non considerando, i soggetti delle fotografie che man mano appaiono nelle grandi bacinelle: sono donne, anziane, nude, per lo più riprese di fronte, in piedi, su uno sfondo grigio, con una luce frontale in alto da sinistra.
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Tatà tatàn… Tatà tatàn… Tatà tatàn… Tatà tatàn… Il carrello del vagone ripete all’infinito il tocco delle ruote d’acciaio sulle giunture dei binari. Ad ogni tocco e risposta è un intero binario percorso: quarantotto metri. Quanti tatà tatàn ci sono da Genova a Treviso?
Nello scompartimento di prima classe Enrico guarda la pianura scorrere di là del finestrino, e cerca di calcolare a mente il numero di tratti di binari trascorsi e quanti ce ne vorranno per arrivare. Ma la mente si perde. Oltre al tatàn dei binari c’è il cavo della linea elettrica che ad ogni palo sale scende risale ridiscende risale. Notte sulla pianura padana. Buio, interrotto ogni tanto da poche luci a volte vicine a volte lontane, o il den den den den della campana ad un passaggio a livello.
Passata Brescia, si va a Verona.
Enrico è sbarcato stamattina dal transatlantico Leonardo da Vinci, New York – Genova. Un momento di nostalgia, pensa, potevo prendere l’aereo, con il DC-8 in otto ore ero a Roma; invece, in nave, otto giorni. Ma così si viaggia davvero, ci si avvicina alla meta percorrendo uno spazio, si ha il tempo di “vivere” l’avvicinamento no? Magari tornerò in aereo. Nostalgia? Non so perché, ma sentivo che era in nave che dovevo tornare, come in nave me ne ero andato.
Quel viaggio, Genova – New York, del 1919, fu davvero un viaggio tremendo, ma non c’era scelta. La Leonardo da Vinci, invece, ha cabine con bagno, ed aria condizionata, e stabilizzatori contro il mare grosso. Gli occhi di Enrico si chiudono. È un uomo sulla sessantina, ben vestito, magro, alto, capelli grigi ondulati all’indietro e con un paio di baffetti pure grigi, come si usa oggi, nel 1961. Nello scompartimento c’è la luce notturna, azzurra e fioca. Gli altri due sono un monsignore, con le calze viola, ben pasciuto, che se la dorme di gusto, lato finestrino di fronte ad Enrico, ed una signora anziana, lato porta, con un cestino chiuso da uno sportellino di vimini, dal quale un mini cagnetto osserva curioso Enrico. “Disturba il cane?” aveva chiesto la signora “è piccolo e non abbaia. È il mio tesoro.”
La nave che partiva da Genova, in quel 1919, era la Duca degli Abruzzi, un piroscafo transatlantico a vapore, pieno di emigranti per lo più analfabeti, con le loro valige di cartone, e fagotti di vestiti. Quanta povera umanità! La stessa che aveva incontrato sui campi di battaglia: numeri, travolti da qualcosa che non capivano e che dovevano subire, per la Patria. La stessa Patria che poi li rigettò in mare, verso la speranza di Paesi sconosciuti.
Se la ricordava bene quella traversata, Enrico, che allora aveva quasi ventidue anni, nelle cuccette a castello di terza, giù nella pancia della nave. Come in guerra, c’erano ragazzi della sua stessa età, ma soprattutto uomini dalle mani rosse e rotte, grandi come badili, che a malapena parlavano italiano; e si erano fatti dei gruppi divisi per dialetto, per regione. Si raccontavano favole sull’America, che ci si sfamava a volontà, fiumi di birra, le auto, e le americane! Ah le americane… Chissà che si raccontavano invece le donne nel reparto femminile, ben più piantate con i piedi a terra, con già tre-quattro figli da badare, e quell’espressione da fame che non si sarebbero più tolta. O le “gambe storte”, tipico della denutrizione figlia della guerra. La Grande Guerra. Gli americani sono venuti ad aiutarci, visto? Vuol dire che è brava gente, di che c’è d’aver paura allora? Siamo tutti figli di Dio, e l’America è grande.
Enrico viaggiava solo, e guardava tutta quella gente senza scuola, gente dalle mani forti da lavoro pesante, proprio quello che l’America cercava: come se la sarebbero cavata? Senza una parola d’inglese, e poche di italiano? Enrico un po’ d’inglese lo sapeva: oltre al Regio Liceo Tito Livio, papà lo aveva obbligato a studiare francese ed inglese “se vuoi essere cittadino del mondo”. Grazie papà, scusami se allora non capivo.
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ATTO PRIMO
SCENA 1
Musica a sipario chiuso per un paio di minuti. Poi sipario aperto.
Inverno.
Una stanza del castello di Dux. Luce mattutina, rosata.
Sul fondo una parete ricoperta da vecchia tappezzeria, ed una grande finestra incorniciata da pesanti tende ora socchiuse, con i vetri segnati dal freddo, e dalla quale si intravede il muro esterno del castello, ed in alto uno scorcio di cielo.
A sinistra sul fondo un tavolo ricoperto di damasco, con dei libri, uno specchio ovale, due lumi d olio, ed una sedia dallo schienale alto, sul quale sono posati degli indumenti.
Al centro, verso sinistra, un tavolino con dei libri e due sgabelli.
A destra s’intravede un letto a baldacchino, con pesanti tende in velluto, chiuse.
Vicino al letto, verso il fondo, c’è un braciere di terracotta.
Ai piedi del letto avvolto in una coperta, c’è il giovane valletto Igor, vestito da valletto, con un berrettone di lana.
A sinistra, in prima, l’entrata scena, che è in quinta. Si sentono delle raffiche di vento. Forse un gallo canta lontano.
Per un paio di minuti non accade nulla, poi si sente tossire dal letto, quindi dalle tende del baldacchino escono i piedi di Casanova (con calze, uno dei quali fasciato), che lo stesso posa sul valletto a terra.
Poi sempre dalle tende fa capolino Casanova, con un berretto da notte e sciarpa e guanti.
Dopo un minuto Casanova dà un’altra spinta con il piede al valletto, che si sveglia definitivamente, si alza a sedere per terra, sbadiglia.
CASANOVA: Sveglia! (non è di buonumore)
IGOR: Sissignore, son sveglio.
CASANOVA: In piedi allora! Vai in cucina a prendere delle braci, che qui si muore dal freddo.
IGOR: Sissignore, vado. (ma non si muove)
CASANOVA: Vai ti dico! E porta un bacile di acqua calda, ed il rasoio. Vai!
Igor si alza sbadigliando, raccoglie la coperta, la piega, la infila sotto al letto, si sistema la giubba, stringe la fascia in vita. Esce grattandosi.
Casanova sta seduto sulla sponda del letto, fatica a conciliarsi alla vita, si massaggia i polpacci. Poi si alza, malfermo. Ha 73 anni, appesantito nel corpo, indossa calzoni e calze, e sopra un camicione pesante. Si toglie il berretto da notte, i guanti, la sciarpa: è pelato, con una corona di capelli grigi e lunghi che scendono sulle palle, si gratta la testa, sbadiglia.
Va alla sedia e trova uno scialle di lana che si mette sulle spalle. Cerca qualcosa sotto il letto, trova un vaso da notte, lo posa sotto la finestra, tutto lentamente. Apre le tende, entra luce nella stanza. Spalle al pubblico alza la camicia da notte e si sente che sta orinando nel boccale.
Rientra in scena Igor con una padella di braci ardenti che versa nel braciere. Fa per uscire, Casanova lo ferma.
CASANOVA: Eeh! Il pitale! Ho fatto.
Igor con una piroetta torna indietro e raccoglie il pitale, ci guarda dentro.
IGOR: Bel colore! Salute della vescica.
CASANOVA: Muoviti! Dottore delle vesciche!
Igor fa un inchino con il pitale ed esce.
Casanova va al braciere, spalle al pubblico, alza la camicia da notte, si scalda la pancia, poi le mani.
Rientra Igor con una bacinella, un asciugamano, il rasoio, posa tutto su uno sgabello, gira la sedia verso la finestra, fa un inchino a Casanova per farlo accomodare.
CASANOVA: Aiutami a vestirmi prima, che ho freddo.
IGOR: Come comandate.
Spalle al pubblico, Igor toglie lo scialle a Casanova, poi dalla sedia prende la camicia che fa indossare, poi un panciotto, poi una veste da camera pesante, poi ancora lo scialle.
Casanova ora si siede sulla sedia, così Igor può togliergli le pantofole, controlla la fasciatura, e gli fa indossare un paio di scarpine col tacco.
IGOR: Se posso, queste calze sono bucate, da rammendare, e la fasciatura da rifare.
CASANOVA: Sono di cotone di Fiandra! Ne avevo sedici paia, che chissà come sono sparite. Ne sai qualcosa tu? La fasciatura va bene come sta, bisogna dare tempo al medicamento di fare il suo lavoro.
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PRONTOSOCCORSO
Giornata al pronto soccorso. Mia madre, quella tignosa, slogata il polso, ma sembrava fosse giunta la sua ultima ora. Niente. Invece, molte vite sospese in lettighe bianche tra stanze e corridoi.
Una mamma, con il suo bimbo, e ridicolo marito in pantaloni rossi, presa alla sprovvista da un mancamento, e le gambe non la tengono più. Di qua e di là a far esami. Per tutte le quattro ore che son stato là, in quel crocevia della vita.
Parlottano sottovoce, il bimbo piange, la mamma lo tiene al petto, trattenendo le lacrime.
La tragedia è più evidente per l’inadeguatezza degli abiti. Lui con i suoi pantaloni rossi, lei con la maglietta a righe. Toctoc, ha fatto il destino, oggi…
Un signore, lasciato nel corridoio, senza nessuno, senza parole, steso, nei suoi capelli bianchi, a guardare il neon impietoso degli ospedali, lontano ricordo del sole di un’estate di che anno, che anno era? pensa pensa, non ricorda. Non sente male, solo fatica a respirare. Voci lontane. E Marta? Era proprio una bella estate, quella. A Cavazuccherina. Mario, Giovanni, Nicola, e Sandra, Sandra! era molto bella Sandra, innamorata di Mario, ma niente, niente…
Fa freddo, qui. Che importa, che importa?..
Una mamma, sorpresa nella sua mise strashicc dalla vita che corre, più veloce di suo figlio, e l’ha fermato, sto benedetto figlio, sto bellissimo figlio che ho. Lo accarezza, il figlio, gli massaggia la fronte, gli parla, come quando si svegliava da piccolo, nella paura di qualche sogno. Quante notti, alla lucina del comodino, a parlare sottovoce, a questo benedetto figlio, unico frutto del ventre rimodellato da sapiente chirurgia.
Proprio oggi, un giorno qualunque, che s’ha da tornare al lavoro! Ci fosse suo padre, quando serve! quando la vita ti viene incontro.
Non sarà niente, non sarà niente, mica si muore così…
Si sono presentati in tre. Lei, la sua amica, e lui. In tre non facevano cinquant’anni. Ma lei voleva la pillola del giorno dopo. Alle 11 di mattina. E la voleva al pronto soccorso.
Sei maggiorenne? ha chiesto una scettica infermiera, e lei ha mostrato la carta d’identità. Per pentirsi bisogna essere maggiorenni.
Ecco, vai alla guardia medica, deciderà il medico.
Ahimé, questo è un covo di antiabortisti cattolici premiati.
Lui, il lui di oggi, le parla fitto fitto, sottovoce. Molto razionalmente.
Lei molto emozionalmente non ricorda, ora, quella cosa divertente e sballante dell’altra sera. Lui è carino, e ci sa anche abbastanza fare, ma un figlio, cristo!! un figlio ora! mai e poi mai. Con la vita non si scherza…
La signora, sdraiata, sudata, con la flebo in vena, con i figli intorno. Che paura!! Il cuore, stupido, tremava come un’anguilla nel petto, andava a 230 battiti al minuto, come un passerotto, come volesse librarsi e lasciarlo, il corpo di lei, la mamma, che stava tagliando la torta del compleanno. Le cose, queste cose, accadono così, irrispettosamente, nei momenti più normali della vita, magari non sei nemmeno pettinata, o cambiata.
E i crocevia s’incontrano nel grumo di fili rossi aggrovigliati, inestricabili, da non far più passare un solo filo d’aria…
Il coltello è caduto, la signora è caduta seduta, nel bel soggiorno appena addobbato, con tutti gli invitati con le tartine in bocca, e il prosecco nel calice, e guardavano senza capire cosa stesse accadendo, mentre accadeva.
Come milioni di volte è accaduto, ed accadrà…
Poi anche di più.
C’era una vecchina, si vedeva appena, piegata dall’artrite che non stava manco distesa. Con lunghi capelli bianchi, crespi, che furono scuri, con una ciocca che cadeva verso il petto. Un che di donna del sud. Respirava soltanto, niente più. Lo sguardo fisso al lenzuolo.
Non chiedermi perché.
Mi sono immaginato fossi tu, la donna che amo, fra cento anni.
Come una foto del futuro, con il tuo corpo, e la tua bellezza, e il tuo sorriso… (oh! non farmici pensare)
Sabbia negli occhi, e sono uscito, in un autunno vestito a festa dal sole, e ti ho chiamata, e sentita la tua voce, distorta, ma tua, dolce, lontana. E non ti ho potuto dire nulla.
Che avrei potuto dire?
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ATTO PRIMO
SCENA I
Personaggi:
DOGE, CORTIGIANO, CERIMONIERE, ALDA, INQUISITORE, DOGARESSA, FRA’ TONDO, SBRISSA, MORTE, BAMBINO, PAGGIO, MORTARA, PROCURATORE, CAPITANO.
Sullo sfondo un drappo di velluto rosso che copre il panorama, molto grande. Tutto il resto è nero e al buio. Al centro un praticabile di circa un metro sul quale è posato il trono del Doge. Sopra al trono un bassorilievo con il leone di San Marco.
Gabbiani di carta volteggiano nel vuoto da fili che pendono dal soffitto.
Le azioni sono sottolineate da colpi di tamburo, piatti, altri strumenti, come nel teatro orientale.
Sorretto “a caregheta” da due paggi, entra il Doge, segue un Cortigiano. I paggi posano il Doge con fatica sul trono che è grande il doppio di lui. Escono. Il Doge indossa una tunica di velluto rosso e dorata, sul capo il corno dogale, in rosso e oro. Il Cortigiano si mette alla sinistra del Doge.
Per tutto il tempo il Cortigiano sta con la testa posata verso il Doge, ad ascoltarne il suo flebile parlare, e parla in vece sua.
Entra il Cerimoniere con il suo bastone da cerimonia, s’inginocchia davanti al Doge e così rimane. Il Doge è stanchissimo, immobile, non apre mai bocca. Sta con i gomiti appoggiati ai braccioli del trono, piegato in avanti con le mani giunte sotto il mento.
CERIMONIERE (a voce altissima) El grande e piccolo Conségio, la nobiltà, el popolo e Venezia tutta, xe contenta de saver che l’altezza Serenissima de vu, el Doge, g’ha poduo trarse suso dal letto e ch’el sta ben, e che ancora el pol e anca el podarà per tanti e tanti anni guidar el so amatissimo popolo.
Il Doge allarga le braccia e guarda in basso verso il Cerimoniere, poi fa cenno al Cortigiano di avvicinarsi e gli parla sottovoce.
CORTIGIANO G’ha ditto el Doge che ancuò ti xe più… stracco del solito e che… (Viene interrotto da Doge con un colpo secco sul bracciolo del trono) El me perdona Serenissima… G’ha ditto el Doge che ancuò ti xe più mona del solito, che a star ben che pensa lu, che quelli del Conségio no i vede l’ora ch’el mora per trarselo d’intorno, e che la zente ghe vol ben, sì, fin che i g’ha la pansa piena! (il Doge lo richiama) G’ha ditto el Doge che se no fusse per el disturbo alle vìssere che queli scagazzeri dei dottori no xe boni da farghe passar, el sarave restà in letto a no far gnente.
CERIMONIERE L’Altezza Serenissima el xe tornà de spirito alegro! Se l’Altezza Serenissima el vol sentirme, ghe diraghe el programa de la zornada.
CORTIGIANO G’ha ditto el Doge che anca se non volesse sentirte, te sighi cussì forte ch’el te sente istesso.
CERIMONIERE Digo o no digo?
CORTIGIANO Ch’el diga!
CERIMONIERE (consulta dei fogli che ha con sé) Cosse che succederà alla presenza de sua Altezza Serenissima el Doge, nel Palazzo Ducale in Venezia ancuò nove de setembre dell’anno domini 1581. A la quarta ora ghe xe l’esecuzion del Capitano Marino Faliero condanà ieri per tradimento, sarà fatto col tagio de le man e dei piè, del naso e de la lengua, de seguito sarà picà, e dopo squartamento etcetera etcetera, come al solito.
CORTIGIANO G’ha ditto el Doge che ste porcae prima de disnar ve le vedarè da vu.
CERIMONIERE Sarave de obbligo per sua Altezza Serenissima assistar co se mette a morte i nobili, el me perdona.
CORTIGIANO G’ha ditto el Doge che andè vanti ch’el se stufa!
CERIMONIERE (sottovoce al Cortigiano) El me scusa lustrissimo, ma mi sento una spussa che manca el fià, che ghe sia calcossa andà de mal?
CORTIGIANO (sottovoce al Cerimoniere) Tasè… ti lo sa ch’el Doge el g’ha dei desturbi a le vìssere… che ghe procura dei sfiati de basso senza rumor ma terribili…
CERIMONIERE (sempre sottovoce) E sì ch’el magna tutta roba de gran lusso…
CORTIGIANO (al Doge) El me scusa Serenissima, ghe disevo de sbrigarse.
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